La scrittura esprime un’attitudine, come il disegno o lo sport. Può essere più o meno forte e produrre cose grandi, piccole o medie. Per me è stato esattamente questo. Da bambino, era una fatica risolvere problemi di matematica e un piacere scrivere temi. Poi con il tempo la scrittura è diventata qualcosa di più. Ma questo solo dopo.
Il compagno di Cesare Pavese è stato il romanzo della mia formazione. Non il più bello, né il più importante in assoluto. Ma quello che mi ha più entusiasmato in una fase della mia vita in cui più ero recettivo e “malleabile”. Sviluppai per Pavese, e quindi per la letteratura – anzi per dire meglio per la “lettura” – un amore che non aveva praticamente confini. Anzi confliggeva con i programmi di studio “regolari”. Pavese è stato per anni il mio mito, quasi una malattia. Nello stile aspro e nei contenuti mai rilassati e risolti. Più che un’educazione alla letteratura: un’educazione al dolore di cui la letteratura è specchio.
La filosofia, la medicina, l’arte, la letteratura sono a diverso titolo figlie del thaumazein di Platone e Aristotele. Non della meraviglia ma del turbamento che l’esperienza dell’esistere produce. Si tratta di un’acquisizione sulla quale molto e sapientemente ha ragionato Emanuele Severino, uno dei più grandi nostri filosofi. Si parva licet componere magnis, posto, cioè, che sia lecito confrontarsi con questi giganti, io penso che sia ragionevole accostare non solo la filosofia, come sostenuto da Aristotele, ma anche la medicina, l’arte e la letteratura al thaumazein, al turbamento dell’esistere. Un’unica origine per attività sicuramente diverse ma indissolubilmente legate e affini a causa della comune genealogia. Cose serie, di cui però nel libro non parlo in modo serioso. Né accademico. Divertendomi a mescolare i piani di indagine, de-classificandoli, liberandoli, cioè, da astratte gerarchie. Volutamente, infatti, e con lo stesso impegno, condito da un’ironia usata come strumento maieutico, parlo del libero arbitrio secondo Spinoza e dei “tradimenti coniugali” o supposti tali, il cui significato tendo a sdrammatizzare.
Concordo sul fatto che la pandemia abbia prodotto un’ampia letteratura “secondaria”: tanta roba, spesso di scarso valore. Sta al lettore e a chi lo aiuta scegliere se c’è qualcosa di buono in questa ondata creativa prodottasi spontaneamente. Sempre che sia messo nella condizione di scegliere consapevolmente, cosa che di questi tempi mi pare piuttosto ardua. E qui arriviamo all’ultima risposta. La pandemia ci ha dimostrato che il nostro modo di vivere non funziona. Lo sapevamo già. La novità è che oggi milioni di morti sono lì a certificarlo. Ma non è stato sufficiente per cambiare gli assetti autodistruttivi che tengono in piedi quello che non è certo il migliore dei mondi possibili. Il fatto è che cambiare questo mondo significherebbe metterli in discussione in radice questi assetti. E questo non è facile. Per il momento.